Prima Sedes a nemine iudicatur.
La prima Sede non è giudicata da nessuno.
Der Papst kann von niemandem vor Gericht gezogen werden.
c. 1556.
L’origine della formula
L’origine della formula risale alle vicende che hanno accompagnato il pontificato di papa Simmaco (498-514). Accusato di aver celebrato la pasqua fuori della data corretta, di aver alienato illegittimamente delle proprietà e di aver avuto rapporti con donne, il re convoca un Sinodo a Roma perché il Papa sia giudicato. Già in vista del Sinodo i sostenitori di papa Simmaco obiettano che «a nullo possit Romanus Pontifex […] audiri» (Fragmentum Laurentianum, in MGH, Gest. Pont. Roman., I, Berolini 1898, X, nn. 5-8). Il Sinodo tenta di restituire la causa al re, ma questi insiste per il giudizio e il 23 ottobre 501 il Sinodo si riunisce e nella decisione lascerà il giudizio del Papa a Dio: «[…] totam causam Dei iudicio reservantes […]» (Quarta Synodus habita Romae Palmaris, in MGH, Auct. Ant., XII, Berolini 1894, 431). D’altronde lo stesso papa Simmaco aveva affermato questo: quando stava per recarsi all’assemblea sinodale e fu attaccato dagli oppositori e si salvò, commentò: «Inter imbres lapidum totus evasit: judicavit Deus» (Epistula apologetica, in D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, VIII, Florentiae 1762, col. 214). La diatriba non si sopì e due fazioni si trovano a fronteggiarsi. I sostenitori di papa Simmaco elaborarono lentamente l’affermazione della ingiudicabilità del Papa. Tra questi spicca Ennodio (474 circa – 521) che tra gli argomenti adduce il principio secondo il quale il legislatore non è tenuto alle proprie leggi: «Dico tamen, latorem iuris definitionis suae, nisi velit, terminis non includi» (Libellus pro Synodo, in MGH, Auct. Ant., VII, Berolini 1961, 61). Sempre a favore di papa Simmaco incominciarono ad essere pubblicati dei libelli, falsamente attribuiti a papa Simmaco (apocrifi Simmachiani). In due di questi ricorre la nostra formula: «Nemo enim judicabit primam sedem»; «Neque presul summus a quoquam judicabitur» (Silvestri Constitutum, in Epistulae Romanorum Pontificum, I, a cura di P. Coustant, Paris 1721, Appendix, 52 e 47); «Quoniam prima sedes non judicabitur a quoquam» (Sinuessanae Synodi Gesta de Marcellino, ibid., 36).
Il significato della norma
Il canone ha voluto conservare la formula antica. Questa scelta (non unica da parte del legislatore canonico e civile) ha un preciso significato: lasciare indeterminato l’oggetto e quindi consentire o favorire un’applicazione ampia, che si adatti all’evoluzione della storia e comprenda eventuali casi futuri che di fatto siano funzionali alla realizzazione del fine che la norma intende.
A rigore, per sé, come evidenzia la traduzione tedesca, il canone proibisce che il Romano Pontefice sia convocato in giudizio canonico come parte convenuta (giudizio contenzioso ordinario) o come parte accusata (imputato; in un giudizio penale) o come parte resistente (in un giudizio amministrativo).
In realtà il canone intende vietare che il Romano Pontefice sia passibile di qualsiasi giudizio da parte di qualsiasi autorità.
La norma canonica
La collocazione del canone, quale primo del titolo De foro competenti, impone l’interpretazione della norma quale sottrazione del Romano Pontefice alla giurisdizione e alla competenza di qualsiasi giudice o tribunale. Come, in altre parole, se si affermasse che qualsiasi giudice manca della competenza per giudicare il Romano Pontefice.
Comunemente si fa discendere da questa norma, tra l’altro, la inimpugnabilità di atti del Romano Pontefice (cf can. 1405 § 2), l’inesistenza di atti in violazione del can. 1404 (cf can. 1406 § 2) e irricusabilità dello stesso Romano Pontefice (cf can. 1449).
La norma in ambito pattizio
Il Trattato fra la Santa Sede e l’Italia (11 febbraio 1929) dichiara «sacra ed inviolabile la persona del Sommo Pontefice» (art. 8, in AAS 21 [1929]213). La formula «fa sì che il Papa manchi del tutto della capacità di diritto penale» (F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna 19954, 259).
Un’eccezione nell’ambito dottrinale?
Nella tradizione canonistica si è formulata (sembra a partire dal cardinale Umberto di Silva Candida [sec. XI]: cf De Santa Romana Ecclesia. Fragmentum A, in P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Leipzig-Berlin 1929, 129) un’eccezione al principio ora formulato nel can. 1404: «nisi deprehendatur a fide devius» (cf Decretum Gratiani: c. 6, D. 40). La conciliazione della clausola con il principio è stata più volte formulata dalla canonistica, senza rapporto con le tesi conciliaristiche della superiorità del concilio sul Romano Pontefice, ma senza approdare ad una soluzione soddisfacente.
Bonnet, P.A., La competenza. Brevi annotazioni ai cc. 1404-1416 CIC, in «Periodica de re canonica» 85 (1996) 312-316.
Casuscelli, G., “La prima Sede non è giudicata da nessuno” (can. 1404 c.j.c.): verso il tramonto di un’utopia, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica» (www.statoechiese.it), marzo 2014.
Marabese, L., Le potenziali sfide all’immunità del Romano Pontefice: una riflessione a partire dai delitti di abuso sessuale di minori da parte di chierici, in «Ius Ecclesiae» 31 (2019) 95-116.
Vacca, S., “Prima sedes a nemine iudicatur”. Genesi e sviluppo storico dell’assioma fino al Decreto di Graziano, Roma 1993.
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 36; 48; 41 (2009) 354; 10 (1978) 219.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito monsmontini.it ove prossimamente saranno pubblicate le dispense aggiornate della parte statica del Corso di diritto processuale tenuto nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana.