Fatalia legis quae dicuntur, id est termini perimendis iuribus a lege constituti, prorogari non possunt, neque valide, nisi petentibus partibus, coarctari.
I così detti fatalia legis, cioè i termini costituiti dalla legge per la perenzione dei diritti, non possono essere prorogati, né possono essere validamente ridotti se non lo richiedano le parti.
Sogenannte gesetzliche Fristen, das heißt vom Gesetz festgelegte Zeiträume, nach deren Ablauf Rechte erloschen sind, können nicht verlängert und ohne Antrag der Parteien auch nicht gültig verkürzt werden.
c. 1634 § 1.
La durata dei processi è uno dei problemi endemici del diritto processuale: iustitia retardata, iustitia denegata, si dice. I termini Termini legali
Il problema deve però essere ricondotto nei suoi giusti limiti (cf can. 1453): non è ragionevole, per esempio, pretendere:
– un processo più celere del(la formazione del) negozio sul quale esso è chiamato a giudicare (per la celebrazione delle nozze si richiede un periodo di preparazione adeguato);
– un processo celere dopo che si è colpevolmente lasciato trascorrere un tempo notevole tra l’evento e l’introduzione del libello;
– un processo celere in secondo grado, dopo aver fatto ostruzionismo in primo grado;
– un processo celere a scapito della giustizia, che è l’oggetto primo del processo.
Le cause della durata dei processi sono numerosissime: i termini sono uno strumento che la legge processuale mette a disposizione del giudice e delle parti per una giusta durata del processo (cf can. 1465 § 3). Non è ragionevole accusare la lunga durata di un processo e essere negligenti nell’uso dei termini messi a disposizione dalla legge processuale.
Il processo si evolve attraverso scadenze, che regolano la presentazione di atti e il compimento di azioni: in tal modo procede ordinato e spedito, nella conoscenza certa da parte di ciascuno dei tempi di intervento.
Il tempo può essere valutato in vari modi: nel suo incominciamento («dies a quo»), nel suo estendersi («intra quindecim dies», per esempio), nel suo punto estremo («dies ad quem») e nella variazione che può subire, sia quanto a restrizione o accorciamento («coarctare») sia quanto ad allungamento o dilazione («prorogare»).
La voce che può utilmente comprendere tutti questi concetti è la voce «terminus», ossia termine. Con essa per sé e propriamente si designa l’estremo punto finale del tempo («il termine di consegna delle animadversiones del difensore del vincolo è il 25 febbraio 2015»), ma può indicare anche l’estensione del tempo («il termine di consegna del restrictus dell’avvocato di parte attrice è di quindici giorni»), oppure una dilazione («il termine è prorogato di dieci giorni»).
Pare utile che l’unico vocabolo di riferimento sia quello di termine, tralasciando per semplicità altri termini quali dilazione (De terminis et dilationibus), il contenuto dei quali può essere espresso senza fraintendimenti con la voce termine.
I termini che sono stabiliti dalla legge sono chiamati «legali». Si tratta dei termini per i quali la legge stessa dispone l’esistenza e l’estensione; così per esempio: «Decretum iudicis partibus notificandum est, quae nisi iam consenserint, possunt intra decem dies ad ipsum iudicem recurrere, ut mutetur» (can. 1513 § 3).
I termini legali sono perentori se una volta scaduti è irrimediabilmente perso («perimere») il diritto a compiere l’atto al quale si riferiva il termine. Per questo sono denominati questi termini legali perentori «fatalia legis» (cf can. 1465 § 1).
Il termine che ordinariamente si propone quale esempio di fatalia legis è quello del termine per la proposizione dell’appello (cf can. 1630 § 1): con la scadenza di questo termine si perde irrimediabilmente il diritto (processuale) di interporre appello e diviene res iudicata (sostanziale) la decisione che si sarebbe potuta appellare.
I termini legali non possono essere prorogati, neppure con il consenso di tutte le parti.
I termini legali non possono essere ridotti. Al riguardo però il can. 1465 § 1 pone un’eccezione, la cui origine probabilmente è identica a quella della eccezione che si legge nel § 2 (cf Communicationes 11 [1979] 133). L’eccezione ha due clausole. La prima è la richiesta delle parti: la riduzione può avvenire da parte del giudice se e soltanto se le parti (per le cause matrimoniali: coniugi e difensore del vincolo) lo chiedono (non solo acconsentono o, su richiesta, tacciono). La seconda è l’ avverbio «valide» che significa che ogni riduzione, al di fuori della prima clausola, è da ritenere invalida (cf can. 10). Questa problematica della riduzione ha notevole importanza nella lettura dell’art. 283 § 4 DC.
Per sé neppure la posizione dell’atto processuale comporta la riduzione del termine, come se l’atto posto comportasse la contrazione del termine legale: potrebbe, infatti, lo stesso atto nel termine legale rimanente essere legittimamente modificato o sostituito (cf, per esempio, can. 1636).
Schöch, N., La disciplina da osservarsi nei tribunali (artt. 65-91), in Il giudizio di nullità matrimoniale dopo l’istruzione “Dignitas connubii”. Parte seconda: la parte statica del processo, Città del Vaticano 2007, 226-228.
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 72; 98; 41 (2009) 371; 10 (1978) 259-260; 11 (1979) 133.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito monsmontini.it ove prossimamente saranno pubblicate le dispense aggiornate della parte statica del Corso di diritto processuale tenuto nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana.