Quilibet, sive baptizatus sive non baptizatus, potest in iudicio agere; pars autem legitime conventa respondere debet.
Chiunque, sia battezzato sia non battezzato, può agire in giudizio; la parte poi legittimamente chiamata in giudizio deve rispondere.
Jeder, ob getauft oder ungetauft, kann vor Gericht als Kläger auftreten; die rechtmäßig belangte Partei ist verpflichtet, sich zu verantworten.
c. 1646; SCSO Resp., 27 ian. 1928 (AAS 20 [1928] 75); PrM 35 § 3; CIV Resp., 8 ian. 1973 (AAS 65 [1973] 59); SA Decl., 31 oct. 1977.
Instructio Dignitas connubii:
Art. 92, 1°
Habiles sunt ad matrimonium impugnandum coniuges sive catholici sive acatholici.
Art. 95 § 2:
Ideo respondere debet coniux legitime in iudicium vocatus.
Premessa La formazione del canone Il principio generale Il principio generale nelle cause matrimoniali
La trattazione sulle parti nella causa si ripartisce con uguale materia per quanto attiene al processo contenzioso ordinario e per quanto attiene al processo speciale di nullità del matrimonio, che ha una estensione singolare trattandosi dei coniugi quali parti in causa.
Questa materia è complicata da numerosi concetti e terminologie, non sempre peraltro ben determinati e suffragati dalla lettera del Codice. Ecco i principali con i quali operare:
– parte: «È parte colui che domanda in proprio nome (o nel cui nome è domandata) una attuazione della legge, e colui di fronte al quale essa è domandata» (G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli 1980, p. 529);
– capacità processuale oppure «persona standi in iudicio» oppure «legitimatio ad processum»: «La capacità di stare in giudizio, cioè di compiere atti processuali con effetti giuridici in nome proprio, o per conto d’altri, dicesi capacità processuale (legitimatio ad processum), da non confondersi colla legitimatio ad causam» (ibid., p. 589);
– «legitimatio activa» oppure «legimatio ad causam» oppure legittimazione processuale: «[…] facultas certam actionem proponendi vel eidem respondendi» (F. Roberti, De processibus, I, In Civitate Vaticana [1956]4, p. 588).
La formulazione del can. 1646 CIC17 era già molto aperta riconoscendo la capacità di agire in giudizio a «chiunque» («quilibet).
I consultori nella prima fase di revisione si divisero. Alcuni intendevano confermare la restrizione espressa in quel canone («nisi a sacris canonibus prohibeantur»), che rendeva fragile e formale la grande apertura iniziale del canone («quilibet»). Alcuni di questi intendevano esplicitare la restrizione specificando «quilibet baptizatus» (cf Communicationes 38 [2006] 76).
La volontà prevalente, però, si manifestava a favore dell’attribuzione «omnibus iuris subiectis» (ibid.). Ciò doveva riguardare anche l’obbligo di rispondere, al quale erano tenuti anche i non battezzati, nel momento in cui siano «legitime conventi», come accade, per esempio, nelle cause di nullità matrimoniale per il coniuge non cattolico (cf ibid., p. 77).
In questa prima fase si approvò comunque una restrizione: anche il non battezzato può agire in giudizio «dummodo petat ministerium iudicis ecclesiastici» (ibid.). Per la verità, più che una restrizione personale, sembra essere il riconoscimento di un limite alla giurisdizione ecclesiastica.
Nello speciale periodo di ripensamento della prima revisione (cf Communicationes 41 [2009] 109-193) un consultore intervenne sulla formulazione (cf ibid., p. 123) proponendo un testo che esplicitasse che anche il non battezzato possedeva la facoltà di agire; ciò che poi rifluì nel primo schema: «Quilibet, sive baptizatus sive non baptizatus, potest in iudicio agere; reus autem legitime conventus respondere debet» (cf ibid., p. 374).
Le medesime riserve sull’ampiezza del riconoscimento si ripresentarono nella seconda revisione, dopo la consultazione. Si eccepì, in tal modo, che i non battezzati non soggiacciono alla giurisdizione ecclesiastica, ma si rispose citando la dichiarazione della Pontificia commissione interprete che aveva riconosciuto ai non battezzati il diritto di accusare la nullità del matrimonio presso i tribunali ecclesiastici (cf Communicationes 10 [1978] 265). Fu parimenti respinto l’emendamento da introdurre «nisi lege prohibeantur» (cf ibid.).
Si confermò in tal modo il can. del primo schema, con la sola sostituzione di «reus» con «pars conventa», secondo l’indicazione generale concordata per tutto il capitolo (cf ibid.).
Con la cancellazione dell’inciso «nisi a sacris canonibus prohibeatur» (can. 1646 CIC17) e la specificazione che la voce «chiunque» comprende sia battezzati sia non battezzati, è tolta ogni eccezione al diritto all’azione, anche se la formulazione (e molto di più il contenuto) dei cann. 96 e 221 § 1 permette tuttora la vigenza e l’inserzione di eccezioni. Può pertanto agire in giudizio non solo chi è costituito persona nella Chiesa (ossia il battezzato: cf can. 96) o in essa gode di personalità giuridica, ma qualsiasi essere umano, anche solo concepito.
Ed è proprio nelle cause matrimoniali che si era evidenziata la volontà di eliminare alcune restrizioni previste dal Codice 1917 per chi era stato autore diretto e doloso della nullità matrimoniale (cf can. 1971) e per chi era stato colpito da alcune pene (cf can. 87; cf pure cann. 2294 § 2, 2315, 2350 § 2, 2357 § 2).
La massima estensione dell’esercizio dell’azione processuale è dettata da una maggiore considerazione delle conseguenze che devono sorgere dal riconoscimento dei diritti della persona; dall’attenzione al legame esistente fra attribuzione, o meglio riconoscimento dei diritti, e attribuzione, o meglio riconoscimento, del potere di farli valere in ambito giudiziario (cf can. 1491); dall’intenzione di evitare l’intervento del promotore di giustizia, che esercitava l’azione al posto di chi ne era sprovvisto.
L’apertura del Codice non deve però far credere che basti la personalità giuridica (persona iuridica) per avere la personalità processuale (persona standi in iudicio) e tanto meno per avere la capacità processuale per un giudizio in particolare (legitimatio ad causam). Queste ultime dipendono rispettivamente dalla capacità di agire della persona (cf, per esempio, can. 1478) e dalla relazione fra la persona e l’azione di cui in oggetto (cf, per esempio, can. 1501).
La massima verifica del principio della capacità giuridica avviene nelle cause di nullità matrimoniali sia perché il matrimonio è collocato tra i diritti fondamentali della persona, sia per l’importanza che ad esso annette la Chiesa, sia per la estensione quantitativa della materia nel foro canonico.
Nel Codice del 1917 erano conosciute varie limitazioni alla facoltà di impugnare il matrimonio.
Una prima rilevante limitazione era la seguente: «Habiles ad accusandum sunt […] coniuges […] nisi ipsi fuerint impedimenti causa» (can. 1971 § 1, 1°).
Da quel momento si succedettero una serie di interpretazioni autentiche e interventi, che da sé soli dicono la problematicità della limitazione, senza contare l’apporto interpretativo della giurisprudenza. A mero scopo illustrativo si può indicare la seguente parabola di interventi:
– 12 marzo 1929: il termine impedimento nell’espressione «nisi ipsi fuerint impedimenti causa» del can. 1971 §1, 1° si riferisce anche ai vizi e difetti di consenso;
– 17 febbraio 1930: i coniugi che non possono impugnare il matrimonio possono però denunciarne la nullità all’ordinario o al promotore di giustizia;
– 17 luglio 1933: si ammettono all’impugnazione del matrimonio il coniuge che abbia subito timore e il coniuge di chi sia stato causa di impedimento; non è ammesso invece il coniuge che sia stato causa colpevole di impedimento;
– 27 luglio 1942: si ammettono all’impugnazione del matrimonio i coniugi che siano stati causa indiretta o senza dolo di impedimento;
– 3 maggio 1945: ai coniugi che non possono impugnare il matrimonio non spetta appellare avverso una sentenza negativa, salvi però i mezzi straordinari di impugnazione;
– 4 gennaio 1946: l’inabilità a impugnare il matrimonio non comporta la nullità insanabile della sentenza definitiva;
– 2 dicembre 1966: l’ordinario del tribunale di primo grado può concedere alla parte attrice inabile la facoltà «standi in iudicio»;
– 20 giugno 1970: la Segnatura Apostolica risponde che contro il decreto dell’ordinario sulla abilità della parte attrice è aperta la via del ricorso alla stessa Segnatura Apostolica e che l’abilità concessa in primo grado vale anche per i successivi;
– 3 novembre 1971: il tribunale di appello del Vicariato di Roma in una sentenza dichiara tacitamente abrogato il prescritto del can. 1971 § 1, 1° dai documenti del concilio Vaticano II e dalle molteplici interpretazioni autentiche su di esso date.
Sarà formalmente il Codice del 1983 che abrogherà la limitazione relativa all’«impedimenti culpa».
Una seconda limitazione non è espressa nel Codice, ma origina da un intervento dell’allora Santo Officio; anche in questo caso è descrivibile una parabola di interventi:
– 18 gennaio 1928: l’acattolico, battezzato o non battezzato, non può essere attore in cause matrimoniali, a motivo del prescritto del can. 87 CIC17 [= 96 CIC83]; «Si quidem autem speciales occurrant rationes ad admittendos acatholicos ut actores […] recurrendum ad S.S. Congregationem S. Officii in singulis casibus»;
– 15 agosto 1936: l’art. 35 § 3 PM recepisce letteralmente la precedente risposta del S. Officio;
– 22 marzo 1939: l’inabilità riguarda sia la Rota Romana sia i tribunali locali;
– 15 gennaio 1940: tra gli acattolici in casu si devono comprendere anche gli apostati;
– 17 dicembre 1965: l’ordinario del tribunale di primo grado può concedere alla parte attrice acattolica la facoltà «standi in iudicio»;
– 24 ottobre 1967: «Nihilominus iuxta mentem legislationis Concilii Vaticani II et praesertim [OE, UR, REU 109] competentia nostri Sacri Tribunalis extenditur […] His omnibus acatholicis, proinde, persona standi in iudicio datur» (una coram Palazzini, 24 ottobre 1967, n. 8, in SRRDec. 59 [1967] 689-690);
– 20 giugno 1970: cf supra;
– 8 gennaio 1973: la Pontificia commissione interprete dichiara che il responsum del Santo Officio del 27 gennaio 1928 «non amplius vigere».
In questo caso il Codice del 1983 con la formulazione del can. 1674, 1° dichiarerà quanto già avvenuto, ossia la decadenza della limitazione ad impugnare il matrimonio da parte degli acattolici.
Bonnet, P., Le parti in causa. Brevi annotazioni ai canoni 1476-1490, in «Periodica de re canonica» 84 (1995) 489-514.
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 76-77; 102; 41 (2009) 374; 10 (1978) 265.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito monsmontini.it ove prossimamente saranno pubblicate le dispense aggiornate della parte statica del Corso di diritto processuale tenuto nella Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana.