Iudex nullam causam cognoscere potest, nisi petitio, ad normam canonum, proposita sit ab eo cuius interest, vel a promotore iustitiae.
Il giudice non può esaminare alcuna causa, se non gli venga presentata, a norma dei canoni, una domanda da chi ha interesse o dal promotore di giustizia.
Der Richter kann über keine Sache befinden, sofern nicht ein den gesetzlichen Erfordernissen entsprechender Klageantrag von jemandem, der ein rechtliches Interesse geltend machen kann, oder vom Kirchenanwalt vorliegt.
SN can. 226.
DC, art. 114
Iudex nullam causam cognoscere potest, nisi petitio proposita sit ab eo qui ad normam artt. 92-93 impugnandi matrimonium iure pollet (cf. can. 1501).
SSAT, decreto del Segretario, 29 aprile 2011, in una Romana, Laesionis bonae famae et refectionis damnorum, prot. n. 45214/11 CG:
«Pro comperto habito quod inter actionis praesupposita habetur ut eadem institui tantum possit ab eo cuius interest, id est opus est ut actio iudicialis ad sententiam definitivam tandem deducta in bonum seu utilitatem actoris vertere possit, ne actiones aemulatoriae instituantur;
Considerato quod Romani Pontificis dumntaxat ius est iudicandi in causis de quibus in can. 1401 Patres Cardinales (cf. can. 1405, § 1, n. 2), ceteris tribunalibus in re absolute incompetentibus (cf. can. 1406, § 2);
Attento quod die […] Em.mus D.nus […] creatus ac renuntiatus est proindeque omnibus in causis de quibus in can. 1401, pendentibus minime exclusis, tantum iudicio Romani Pontificis ipse iamnunc obnoxius est;
Deducto ergo quod, quidquid est de fundamento iuris quoad querelam nullitatis atque petitionem restitutionis in integrum adversus decretum rotaIe diei […], hae impugnationes Rev.mo actori, etsi forte victori, nullum favorem importare possunt;
Praetermissa petitione, iterum iterumque a Rev.mo D.no […] porrecta, de hac re iudiciali Summo Pontifici significanda, cum ad H.S.T. notitias Summo Pontifici transmittere non pertineat;
[…]
decrevit:
Querelam nullitatis ac petitionem restitutionis in integrum adversus decretum Rotale coram R.P.D. […] diei […] propositas in limine reiciendas esse ac facto reici ob praesuppositi defectum».
Corte di Cassazione dello Stato della Città del Vaticano, sentenza prot. n. 35/2017 R.G. pres. Mamberti, 18 gennaio 2018, n. 7:
«Secondo il parere del Rev.mo Promotore di Giustizia la “falsa applicazione della legge nel caso è avvenuta nel momento in cui il decreto impugnato abbia preteso di rigettare la richiesta di efficacia e forza esecutiva della sentenza straniera per mancanza di interesse ad agire pur avendo esplicitamente ammesso nel decreto stesso che era possibile intuire dalla richiesta l’esistenza di un interesse e la natura stessa dell’interesse alla richiesta giurisdizionale”. In una fase così remota del processo, quale la prima delibazione della domanda giudiziale compiuta dal Presidente della Corte di appello, precedente alla costituzione dello stesso Collegio e alla instaurazione del contraddittorio nella sua forma pur iniziale (la citazione), e prescindendo dalla procedura prevista per l’ordinanza, deputata nella sua struttura (cf. art. 742, § 1 [Codice di procedura civile]: “intese o citate le parti”) a verificare la esistenza provata dei requisiti dell’azione, tra i quali l’interesse ad agire, “si deve distinguere tra la richiesta della dimostrazione dell’interesse ad agire – quale interesse certo, concreto e attuale – e la plausibilità della esistenza dell’interesse ad agire”. La prima (dimostrazione dell’interesse ad agire) è condizione della ammissibilità della richiesta giurisdizionale e condizione della stessa perseveranza del giudizio, potendo e dovendo dichiarare in ogni stadio del processo la sua eventuale cessazione; la seconda (plausibilità dell’esistenza dell’interesse ad agire) è condizione necessaria e sufficiente all’accesso alla fase introduttiva del processo. […] La falsa applicazione della legge nel caso è avvenuta nel momento in cui si è ritenuto requisito per l’ammissibilità dell’azione l’interesse ad agire in quanto esplicitamente menzionato e sviluppato nella richiesta giudiziale, e si è ritenuto preclusivo all’azione la mancata menzione esplicita dell’interesse ad agire nella richiesta giudiziale prouti iacet».
Origine del canone La domanda L’interesse Per la validità? Validità quanto alla domanda Validità quanto all’interesse Ancora sulla domanda Ancora sull’interesse Processualmente
Il canone ha origine dalla proposta di molti consultori (cf Communicationes 38 [2006] 120). L’origine remota risale alla proposta di Ciprotti (cf. S. Congregazione Orientale – Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale, Ventesima Plenaria. Proposte di modifiche del testo del “Codex Iuris Canonici”. Nuove proposte presentate dal Prof. Pio Ciprotti, Città del Vaticano 1944, pp. 65; 95-96). Egli si proponeva due scopi principali: il primo, riaffermare il principio Nemo iudex sine actore, che in alcuni canoni del Codice del 1917 non era chiaramente affermato (cf. soprattutto il can. 1618 [ora can. 1452]; cf. pure, per esempio, cann. 103, § 2 e 1688, § 2 del Codice del 1917) e riportare così anche all’inizio della parte generale sul giudizio contenzioso ordinario il prescritto del can. 1970 CIC17 per le cause di nullità matrimoniale. Il secondo scopo era quello di «prendere l’occasione per enunciare il principio della necessità dell’interesse ad agire», per il quale Ciprotti faceva riferimento all’art. 100 dell’allora Codice di procedura civile italiano e all’art. 3 del Progetto di Codice di procedura civile dello Stato della Città del Vaticano (ora art. 3, § 1 di quel Codice). Allo scopo proponeva un testo del nuovo canone: «Iudex nullam causam cognoscere potest, nisi petitio, ad normam canonum qui sequuntur, proposita sit ab eo cuius interest, vel a promotore iustitiae» (cf ibid., p. 96). Il canone proposto, con l’omissione della locuzione «qui sequuntur», fu recepito nel can. 226 del motu proprio Sollicitudinem Nostram (AAS 42 [1950] 53) e rimase invariato fino al testo del Codice. Fu proprio questo canone che i consultori vollero porre all’inizio della parte sul contenzioso ordinario (cf. Communicationes 38 [2006] 120; 11 [1979] 82).
Il primo requisito perché il giudice possa giudicare una causa è che vi sia una richiesta (petitio). Il giudice, pertanto, non può introdurre da se stesso una causa (Nemo iudex sine actore: «non si dà giudice senza una persona che agisce»), ma può solo rispondere con una sua sentenza all’istanza (domanda) proveniente da parti private o da una parte pubblica, secondo l’oggetto da loro indicato. Così, per esempio, una causa di nullità matrimoniale potrà essere giudicata solo se un coniuge la chiede al giudice oppure se il promotore di giustizia, alle condizioni di cui al can. 1674, § 1, n. 2, la chiede al giudice. Così, per addurre un altro esempio, il giudice può giudicare una causa penale se il promotore di giustizia gli presenta la domanda nella quale chiede che venga punito l’autore di un delitto.
Il canone richiede poi, perché il giudice possa conoscere una causa, che colui che presenta la domanda sia «interessato», cioè abbia un interesse nella domanda e soprattutto nella risposta.
Il concetto di interesse è pluriforme e soggiace pure a denominazioni non univocamente riconosciute dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Oggi è prevalente al riguardo la denominazione di «legittimazione attiva»: chi la possiede può presentare domanda al giudice. Di questo si tratterà in occasione della «capacità di stare in giudizio» (cf. can. 1505, § 1 e § 2, n. 2).
Il concetto di «interesse» di cui al can. 1501 riguarda l’interesse concreto, reale, ossia, che l’assenza di interesse (ossia che la decisione giudiziale non potrà portare alcun vantaggio all’attore) comporta il rigetto del libello. L’ordinamento giuridico canonico non accetta cause “inutili”, “introdotte solo allo scopo di nuocere ad altri, senza alcun vantaggio per chi domanda”, “emulatorie”: dal momento che l’attività del giudice è di carattere pubblico, costituirebbe uno spreco di tempo e risorse trattare cause che non portino vantaggi a che le domanda. Tale principio favorisce, quindi, anche una importante economia processuale.
Così, per addurre esempio, la Segnatura Apostolica ha potuto rigettare senza entrare nel merito una impugnazione di un decreto rotale che aveva rigettato il libello per incompetenza sulla base del fatto che la parte convenuta era stata erroneamente considerata già Cardinale al momento dell’annuncio della sua futura creazione in concistoro: nel momento in cui la Segnatura Apostolica ricevette la impugnazione la parte convenuta era già stata creata Cardinale in concistoro e quindi la decisione della Segnatura sarebbe stata “inutile” perché, rimandata la causa in Rota, questa avrebbe dovuto, questa volta correttamente, dichiarare la propria incompetenza, considerata la competenza esclusiva del Romano Pontefice nelle cause avverso Cardinali (cf. can. 1403, § 1, n. 2). Così la Segnatura Apostolica con decreto respinse la causa per mancanza di un presupposto, ossia dell’interesse dell’attore (cf. SSAT, decreto, 29 aprile 2011, prot. n. 45214/11 CG: il testo è riportato sopra).
Il canone preferisce nominare distintamente il promotore di giustizia accanto all’interessato in quanto il promotore di giustizia, pur essendo certamente interessato alla causa in quanto è chiamato a rappresentare e difendere il bene pubblico (cf can. 1430), l’interesse ovviamente non è personale.
Nella sessione di revisione del 23 ottobre 1967 fu avanzata la proposta di inserire nel canone la clausola «valide», così che il canone acquisisse forza irritante (cf Communicationes 38 [2006] 120).
La discussione fu vivace e alla fine fu deciso di non introdurre l’avverbio «valide», perché – queste furono le ragioni addotte – avrebbe dato ansa agli avvocati di proporre cause incidentali (cf. ibid., 120) e inoltre la Congregazione per la dottrina della fede giudicherebbe cause «quarum partes (pagani) aliquando ignarae sunt» (ibid., 121).
Nonostante il rifiuto di introdurre l’avverbio «valide», la mancanza della domanda provoca senz’altro la nullità insanabile della sentenza per vizio insanabile: «Sententia vitio insanabilis nullitatis laborat, si […] iudicium factum est sine iudiciali petitione, de qua in can. 1501 […]» (can. 1620, n. 4). Come si nota il prescritto rimanda letteralmente al can. 1501. Per un approfondimento del significato del rimando cf commento al can. 1620.
Più complessa è la questione se la mancanza di interesse provochi la nullità della sentenza giudiziale. La questione qui è limitata alla mancanza di interesse reale, concreto; non si affronta qui la questione della mancanza di legittimazione attiva (cf commento al can. 1505, § 1 e § 2, n. 2; can. 1620, nn. 5 e 6).
Limitatamente quindi all’interesse reale e concreto, il testo del canone e le ragioni dogmatiche dello stesso non consentono di concludere per la nullità di una sentenza proposta senza interesse concreto e reale dell’attore. Si potrebbe valutare semmai la sanzione dell’attore per lite temeraria (cf can. 1649, § 1, n. 4).
Altrove ho affermato che il principio della domanda (can. 1501) ha portata costituzionale (cf G.P. Montini, De iudicio contentioso ordinario. De processibus matrimonialibus. II. Pars dynamica. Ad usum Auditorum, Romae 20205, 108). Ciò in ragione della indeclinabilità del principio Nemo iudex sine actore. Ciò comporta, per esempio:
– il limite, ora esplicitamente inserito nel can. 1452, § 1, che il giudice può procedere d’ufficio «[c]ausa autem legitime introducta»;
– la precisazione, introdotta nel can. 1686 (ora 1688) e nell’art. 295 DC, che anche il processo documentale è introdotto «petitione ad normam artt. 114 [= can. 1501]-117 proposita» (art. 295 DC), «petitione ad normam can. 1677 [ore 1676] proposita» (can. 1686 ora [1688]), in risposta ad alcuni Autori che avevano ritenuto officioso il processo documentale.
Vi sono altre disposizioni processuali che trovano la loro origine mediata nel can. 1501 in quanto richiede nell’attore l’interesse a promuovere una causa: cf, per esempio:
– can. 1674, § 2;
– can. 1674, § 3 con can. 1518;
– art. 3, § 2 DC, che rimanda esplicitamente all’art. 114 DC, corrispondente appunto al can. 1501; sulla valenza del rinvio cf G.P. Montini, «Il matrimonio tra acattolici di fronte al giudice ecclesiastico. Alcune note sull’art. 3 §2 dell’istruzione “Dignitas connubii”, in Periodica de re canonica 99 (2010) 627-679.
La stessa problematica dell’interesse si rivela nel promuovere una causa in appello su un capo, definito negativamente, quando si è già raggiunto lo scopo prefissato con i capi, definiti affermativamente. Così, per esempio, dichiarata la nullità del matrimonio per impedimento di età e negativamente per incapacità di assumere gli oneri coniugali, chi volesse impugnare il capo definito negativamente deve dimostrare l’interesse che sopravvive dal momento che con l’affermativa sull’impedimento di età già è libero di stato e può – positis ponendis – convolare a nuove nozze. Analogamente – per addurre un altro esempio – dovrà dimostrare l’interesse ad una causa di nullità chi avesse ottenuto lo scioglimento per inconsumazione del proprio matrimonio.
La prima verifica della esistenza e natura di domanda della petitio presentata, come pure la prima verifica dell’interesse concreto e reale di cui specificamente al can. 1501 (cf supra), avviene a norma del can. 1505, §§ 1-2. La prima verifica può portare al rigetto (del libello) solo se prima facie, ossia «sine dubio» (can. 1505, § 2, n. 2), consti della mancanza della domanda o dell’interesse.
In una sentenza della Corte di Cassazione dello Stato della Città del Vaticano (18 gennaio 2018 pres. Mamberti, prot. n. 35/2017 R.G., n. 7) è stato affrontato il tema della prima verifica dell’interesse, quale presupposto della causa: dal momento che a fondamento della decisione di rigetto, cassata poi dalla Corte, erano stati addotti dal Promotore di giustizia in Corte di appello anche elementi normativi del Codice di diritto canonico, costituisce una utile interpretazione anche del dato canonico (cf testo sopra riportato).
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 120-121; 147; 41 (2009) 386; 11 (1979) 82.