Si iudex intra mensem ab exhibito libello decretum non ediderit, quo libellum admittit vel reicit ad normam can. 1505, pars, cuius interest, instare potest ut iudex suo munere fungatur; quod si nihilominus iudex sileat, inutiliter lapsis decem diebus a facta instantia, libellus pro admisso habeatur.
Se il giudice entro un mese dalla presentazione del libello non ha emesso il decreto, con il quale ammette o respinge il libello a norma del can. 1505, la parte interessata può fare istanza perché il giudice adempia il suo compito; che se ciononostante il giudice taccia, trascorsi inutilmente dieci giorni dalla data dell’istanza, il libello si consideri ammesso. 1
Wenn der Richter zur Klageschrift innerhalb eines Monats seit ihrer Einreichung nicht durch Dekret entschieden hat, dass sie angenommen oder gemäß can. 1505 abgewiesen ist, kann die Partei darauf dringen, dass der Richter seinen Dienst leistet; bleibt der Richter dessen ungeachtet untätig, so gilt nach erfolglosem Ablauf von zehn Tagen seit der Anmahnung die Klageschrift als angenommen. 2
Can. 1710; PrM 67.
DC, art. 125
Si iudex intra mensem ab exhibito libello decretum non ediderit, quo libellum admittit vel reicit, pars, cuius interest, instare potest ut iudex suo munere fungatur; quod si nihilominus iudex sileat, inutiliter lapsis decem diebus a facta instantia, libellus, si legitime propositus fuerit, pro admisso habeatur (cf. can. 1506).
Formazione del canone Valutazione del rimedio al ritardo Condizioni per l’ammissione ipso iure del libello I presupposti dell’ammissione del libello ipso iure non sono diversi da quelle previste nel Codice previgente in caso di ritardo, ossia:
Già il Codice previgente al can. 1710 prevedeva una norma nel caso il giudice ritardasse nell’esame del libello, sia nell’ammissione che nel rigetto.
I rimedi allora previsti erano due: ricorrere all’Ordinario del luogo se non era lui stesso giudice, oppure, ossia nel caso in cui l’Ordinario fosse lui stesso giudice, ricorrere al tribunale superiore; nell’uno e nell’altro caso l’autorità adíta poteva costringere il giudice ad agire o sostituirlo.
Questo è il segno che il pericolo della lentezza della giustizia già era presente all’inizio del secolo XIX.
Approdato in seno alla Commissione, il tema creò ansia nei consultori («angit Consultores»: Communicationes 38 [2006] 126), che dedicarono molte energie alla soluzione efficace della problematica.
Una prima proposta fu quella di equiparare il ritardo nell’esame del libello al suo rigetto: in tal modo si poteva omettere il canone e aggiungere al precedente (l’attuale can. 1505, § 4) il ritardo, così che la medesima normativa sul ricorso avverso il rigetto si sarebbe applicata anche al ricorso avverso il ritardo nell’esame del libello (cf ibid.). La proposta non piacque o non fu compresa appieno e fu respinta perché – si obiettò – «un illecito disciplinare (il silenzio del tribunale) sembrerebbe essere equiparato a un decreto forse ingiusto» (ibid.).
Una seconda proposta (confermare il ricorso al tribunale di appello, previsto nel Codice previgente) fu respinta: questo ricorso «è quasi inutile perché lo stesso tribunale nulla può sulla mera disciplina del tribunale inferiore e non può provvedere efficacemente sostituendo il giudice pigro [ignavum]» (ibid.).
Una terza proposta (del Relatore) prevedeva il ricorso all’Ordinario del luogo e, nel caso fosse lui stesso il giudice, al Presidente della Conferenza episcopale, per una certa autorità morale di cui quest’ultimo gode verso i vescovi (cf ibid., pp. 126-127). La proposta cadde nel vuoto.
Una quarta proposta fu il ricorso ad un più alto tribunale, quale la Segnatura Apostolica (cf ibid., p. 127).
Una quinta proposta fu il ricorso al tribunale di appello (cf ibid.).
In quella seduta la spuntò una proposta del Relatore che prevedeva il ricorso al tribunale di appello, che veniva reso così competente ad esaminare il libello per l’ammissione o il rigetto («quod competens fit ad iudicandum de acceptatione libelli» [ibid.]): sette consultori furono a favore e tre contrari.
Dopo però l’intervento del parvus coetus, il testo del canone nel I schema divenne «libellus pro admisso habeatur» (Communicationes 41 [2009] 387).
La proposta (ammissione ipso iure del libello) ad alcuni organi di consultazione apparve probabilmente come un premio alla negligenza del giudice «dum e contra neglegentiam repellere oportet» (Communicationes 11 [1979] 87-88). I consultori però difesero la norma con due ragioni: la prima fu che con l’ammissione ipso iure del libello «iura partis ita salvantur» (ibid., p. 88); l’altra fu che la norma non poteva essere considerata sconveniente, sproporzionata («incongrua»), perché generalmente il libello molto di raro viene rigettato (ibid.).
Ci fu un ultimo tentativo di ritornare alla normativa previgente da parte di mons. Bernardin, che riteneva inopportuna la nuova formulazione del rimedio (cf Communicationes 16 [1984] 62). La Commissione difese la soluzione proposta nello schema: avrebbe – a detta della Commissione – protetto il diritto del fedele e «tendit ad cursum iustitiae celeriorem reddendum» (ibid.).
L’argomento – come si è visto – fu oggetto di peculiare attenzione, ma la soluzione non si può dire a tutt’oggi soddisfacente, anche se si deve considerare che la disposizione del canone non esclude la messa in atto di altri rimedi di vario genere.
Già nella seconda revisione del canone vi furono organi di consultazione che proposero in aggiunta all’ammissione ipso iure del libello, la comminazione di qualche pena al giudice negligente (ibid., p. 87). Alla Commissione non piacque questa proposta penale: «tali casi o simili si devono risolvere con la ordinaria vigilanza dei legittimi superiori» (ibid.).
L’insoddisfazione della soluzione trapela anche dal modo (congiuntivo) usato per coniugare il verbo finale: «habeatur» dice il canone (= si abbia; si consideri; si stimi come se), e non «habetur» (= si ha; si considera).
Questa scelta verbale manifesta l’imbarazzo che può aversi nel considerare «ammesso» un libello, per esempio, assolutamente infondato, addirittura illegittimo, presentato ad un foro incompetente. A poco vale discettare che in questi casi non si dà, non ha luogo l’ammissione: finché la illegittima o ingiusta ammissione non sia decretata ad normam iuris da un giudice competente, in forza del canone il libello è (da ritenersi) ammesso. Anche la clausola aggiunta in DC 125 («si legitime propositus fuerit») non apporta soluzione alla questione.
La formula usata, infine, rende chiaro che il ritardo nell’esame non fa altro che trasferirsi dal momento processuale dell’esame al momento processuale successivo, della notificazione e citazione.
1. al giudice è dato un mese per emanare il decreto di ammissione o di rigetto del libello: il mese si computa come tempo continuo (cf can. 201, § 2), a partire dal momento nel quale il libello è pervenuto al tribunale (e in questo mese si deve computare il tempo per la costituzione del tribunale, ad opera del vicario giudiziale), che potrebbe non coincidere con il momento (successivo) nel quale il giudice al quale è affidata la causa ha ricevuto materialmente il libello;
2. alla parte interessata è data la facoltà di insistere perché il giudice agisca: questo può avvenire, ovviamente dopo che il mese è trascorso, senza limiti per il tempo successivo (potrebbe cioè la parte interessata urgere l’esame del libello anche dopo un anno, per esempio);
3. dal ricevimento dell’istanza da parte del giudice al quale è affidata la causa, gli sono concessi altri dieci giorni per emanare il decreto di ammissione o di rigetto del libello. Trascorsi i dieci giorni il libello si ritiene come ammesso.
Nell’iter di revisione del testo i termini temporali sono mutati più volte e sono stati oggetto di discussione: si giunse anche a prevedere un § 2 del canone che lasciava alla legge particolare di abbreviare o anche aumentare, ma non oltre il doppio, i termini temporali stabiliti con legge codiciale (cf Communicationes 41 [2009] 387; 11 [1979] 87; 88).
Z. Grocholewski, «De periodo initiali seu introductoria processus in causis nullitatis matrimonii», Periodica de re canonica 85 (1996) 114-116.
In ordine cronologico
Communicationes 38 (2006) 126-127; 148; 41 (2009) 387; 11 (1979) 87-88; 16 (1984) 62.
L’articolo di Z. Grocholewski citato in bibliografia è stato pubblicato in varie lingue e luoghi:
Z. Grocholewski, «A fase inicial ou introdutória do processo nas causas de nulidade de matrimônio», Direito & pastoral 10 (1996) 7-52;
Z. Grocholewski, «De periodo initiali seu introductoria processus in causis nullitatis matrimonii», in Zbornik z II. Sympózia kanonického práva, 1992, 13-65;
Z. Grocholewski, «Úvodná fáza Procesu v Kauzách Manželskej Nulity», in Ius et iustitia. Acta III Symposii Iuris Canonici anni 1993, Spisska Kapitula 1994, 211-259.
Bibliografia e ulteriori approfondimenti in G.P. Montini, De iudicio contentioso ordinario. De processibus matrimonialibus. II. Pars dynamica. Editio quinta. Ad usum Auditorum, Romae 20205, pp. 101-151.
Notes:
- La traduzione di «a facta instantia» con «dalla data dell’istanza» non pare congruente e, peraltro, si diversifica senza ragione dalla traduzione dell’analogo testo nel can. 1507, § 2: «dal momento in cui fu fatta l’istanza». Parrebbe corretto tradurre ricorrendo all’espressione «dalla presentazione dell’istanza» (come nelle traduzioni inglese e spagnola di DC 125) oppure omettere la traduzione di «facta» (come nelle traduzioni tedesche). Il tempo, di cui nel canone, infatti scorre dal momento in cui la richiesta è notificata al giudice. ↩
- La traduzione omette inspiegabilmente di tradurre «cuius interest» riferito alla parte: cf invece MK: «die Partei, die betroffen ist». ↩